Il racconto dominante sul 7 ottobre e su quello che è accaduto dopo tenta ancora una volta di confinare al bordo del discorso pubblico ambiti di pensiero e prassi decoloniali. Secondo Lara Kilani, ricercatrice impegnata con il Good Shepherd Collective, organizzazione antisionista e anticoloniale, molte istituzioni e media, ma anche Ong e gruppi di solidarietà continuano a occuparsi della Palestina con la bussola truccata della “risoluzione dei conflitti” o dei “diritti umani” priva dell’analisi storica del colonialismo. Intanto la discussione dell’accusa di genocidio nei confronti di Israele portata avanti dal Sudafrica presso la Corte internazionale di giustizia si dimostra poco utile sul piano politico, in troppi continuano e pensare al diritto internazionale come un sostituto della trasformazione sociale qui e ora. “Naturalmente non posso prevedere il futuro, ma spero che sia un futuro decoloniale – dice Lara in questa intervista raccolta da Comune – in cui i palestinesi siano in grado di tornare nelle loro terre, smantellare le strutture del sionismo che sostengono la violenza perpetua e lo sradicamento e costruire nuove strutture che permettano a questa comunità ricostituita di prosperare.
È molto difficile, ma forse più importante che mai, immaginare questo futuro proprio in un momento come questo. Per troppo tempo in tanti al di fuori della Palestina hanno creduto che il sionismo e il colonialismo sarebbero durati per sempre…”
Da più parti si è sottolineato come una valutazione degli eventi scatenatisi il 7 ottobre dovesse riferirsi a un contesto più ampio. Argomento ripetuto con insistenza di fronte alla pressante narrativa di quel sabato mattina simile a un’istantanea avulsa da un secolo di eventi sanguinari, di spossessamento, di imprigionamenti, di evacuazioni di massa.
Del colonialismo d’insediamento in territorio palestinese se ne parla, ma mai abbastanza. Di certo, sono limitate alla quasi impercettibilità le occasioni di esternazione spettanti ad ambiti di pensiero e prassi decoloniali sistematicamente confinati al bordo del discorso pubblico. Interessi imperialisti e del capitale, l’occlusione imposta al dibattito da sommari automatismi d’accusa nei confronti di condotte ritenute antisemite, il clima di censura e repressivo del libero pensiero e del diritto di manifestare comprimono l’espressione di approcci chiaramente antisionisti e decoloniali. Eppure, tali sentimenti di lotta politica riemergono urgenti, resistenti a decenni di politiche neoliberiste, animando soprattutto nuove generazioni, movimenti dal basso e attività spontanee in un rinnovato impegno per la Palestina libera.
Il Good Shepherd Collective (GSC) è un’organizzazione antisionista e anticoloniale con sede nei pressi di Betlemme impegnata nello sforzo educativo e in campagne volte al ripristino della giustizia oltraggiata. Abbiamo dialogato con Lara Kilani, dottoranda Ph.D e ricercatrice palestino-americana, autrice di saggi sulla materia e membro del collettivo GSC.
Lara, non trovi che nella narrazione degli eventi successivi al 7 ottobre si sia subito affermato un approccio minimizzante, riduzionista della resistenza palestinese? I media mainstream sono apparsi asserviti a logiche funzionali proprie dei criteri coloniali. Nello scenario, poi, di uno zeitgeist ispirato a parole come quelle espresse dal filosofo Habermas che, in un documento del novembre scorso firmato anche da altri intellettuali, ha sostenuto “Il massacro di Hamas con l’intento dichiarato di eliminare la vita ebraica in generale ha spinto Israele a contrattaccare”. E ancora: “Le azioni di Israele non giustificano in alcun modo reazioni antisemite”. Cosa commenti a riguardo?
Una caratteristica essenziale dell’imperialismo è la capacità di costruire consenso. Gli Stati Uniti in generale e il movimento sionista in particolare hanno investito miliardi di dollari per creare istituzioni inserite nelle reti liberal e conservatrici con l’obiettivo di dominare il discorso mainstream. Personalità come Habermas giocano un ruolo cruciale in tal senso perché fanno leva sulla loro posizione andando a legittimare discorsi razzisti e coloniali. Uno sguardo anche superficiale alla storia del colonialismo sionista conferma ciò. A tal proposito, i sionisti ritenevano la Palestina essere una terra relativamente desolata, nelle loro parole “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Quando però sono state rese evidenti prove contrarie a tale descrizione, gli stessi hanno sostenuto che la Nakba – evento che ha comportato 70 massacri, la distruzione di 450 villaggi e l’uccisione di circa 15.000 palestinesi indigeni – fosse un evento necessario e morale. Il punto di vista dei sionisti è imperniato sul rifiuto dell’idea dello Stato quale progetto coloniale e quando ciò viene facilmente confutato, attingendo alla stessa storia del sionismo, essi stessi sostengono apertamente e pubblicamente che l’uccisione della popolazione indigena rispondesse a una questione morale. Ecco perché è fondamentale collocare la liberazione e la decolonizzazione della Palestina nel contesto di un colonialismo d’insediamento: la violenza usata dai popoli indigeni che resistono alla loro eliminazione e cancellazione non è mai moralmente uguale alla violenza della conquista. Molte istituzioni liberali, Ong e gruppi di solidarietà continuano a occuparsi della Palestina secondo il paradigma della “risoluzione dei conflitti” o dei “diritti umani”, che elimina intenzionalmente la necessaria analisi storica del colonialismo. La modalità con cui si è sviluppata la comunicazione relativa al 7 ottobre si è attuata perciò in una modalità per niente sorprendente.
In tuoi recenti lavori spieghi come il sionismo sia un processo continuo di colonialismo di insediamento, causa principale del genocidio in corso. Su cosa si fonda tale enunciato e puoi spiegarlo?
Il sionismo, in quanto forma di colonialismo d’insediamento, si basa sull’eliminazione delle popolazioni indigene, i palestinesi, e sul furto delle risorse che loro appartengono. Non si tratta di un fenomeno unico: le società coloniali d’insediamento esistono in altre parti del mondo, ad esempio gli stessi Stati Uniti. È importante capire che il progetto sionista è sempre stato, per sua natura, coloniale e che i processi di eliminazione o evacuazione degli indigeni e il furto delle risorse della Palestina continuano ancora oggi. Il progetto israeliano di colonizzazione persiste all’interno delle terre già colonizzate nel 1948 con la distruzione di abitazioni palestinesi e lo sfollamento forzato dei villaggi beduini nel Naqab (Negev). Ma continua anche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, passate sotto il controllo israeliano nel 1967, attraverso la costruzione di insediamenti, lo sfollamento di palestinesi, il furto dei nostri terreni agricoli e la distruzione delle infrastrutture indispensabili per permanervi. Tutto ciò è manifestamente dimostrato oggi con quanto avviene a Gaza, con la distruzione così evidente del sistema sanitario, dei servizi di emergenza, delle università, dei campi agricoli e così via.
La lotta contro questa oppressione segue dunque criteri antisionisti e decoloniali. È un patrimonio ideologico e di prassi che può esser proprio della popolazione palestinese, difficilmente attribuibile alla visione delle Ong occidentali. Puoi approfondire questo tema?
Le Ong, spesso finanziate da istituzioni con interessi molto differenti da quelli delle comunità palestinesi, operano generalmente nell’ambito della risoluzione dei conflitti o dei diritti umani. Entrambi questi modelli sono stati storicamente utilizzati per appannare il dibattito sulla decolonizzazione e la liberazione indigena o, addirittura, per provocarne il fallimento. Ad esempio, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, alcuni dei maggiori gruppi di solidarietà, come Jewish Voice for Peace, US Campaign for Palestinian Right, Na’amod utilizzano un linguaggio per cui alcuni coloni israeliani sono da considerarsi legittimi, ad esempio quelli che vivono a Tel Aviv e Haifa, mentre illegittimi sarebbero quelli che vivono a Kiryat Arba. Tali organizzazioni, cioè, considerano i coloni separabili in differenti categorie, mentre i palestinesi sfollati dalle città “israeliane” e ora presenti a Gaza o nei campi profughi della Cisgiordania o ancora altrove nella diaspora sono consapevoli del fatto che i coloni di Tel Aviv, Petah Tikvah e Ashdod sono tutti, in egual misura, coloni. La differenziazione dei coloni in categorie separate è in realtà una distinzione tutta israeliana. I cosiddetti israeliani o sionisti “liberal” individuano gli abitanti degli insediamenti in Cisgiordania come coloni (mitnahlim, in ebraico), volendo indicarli come “colonizzatori” o “occupanti abusivi” ben distinti dagli israeliani residenti entro i confini determinatisi nel 1948. Questo ha una connotazione unicamente negativa: non è infatti lo stesso termine usato per i primi coloni o pionieri israeliani (halutzim, in ebraico), iniziatori della colonizzazione della Palestina e detentori, secondo la loro visione, di una connotazione molto più positiva. I palestinesi sanno bene che tale distinzione è priva di qualsiasi significato. Che stiano ristrutturando Yaffa o colonizzando Gush Etzion, i coloni israeliani sostengono la stessa missione di cancellazione o eliminazione dei palestinesi e il furto delle loro risorse. Ebbene, nel momento in cui le Ong fanno ricorso a questa stessa distinzione, consapevolmente o meno, sostengono e giustificano la divisione della Palestina storica, il sionismo e l’idea che la costruzione di Israele sia stata legittima.
Veniamo al cosiddetto scandalo circa il supposto collaborazionismo con Hamas da parte dell’Unrwa, l’agenzia Onu per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi, emerso durante l’aggressione di questi mesi a Gaza. In particolare, qual è, secondo te, il ruolo dell’Unrwa nel contesto coloniale? Se Unrwa è un organo inserito in uno scenario coloniale e dello status quo, perché Israele dovrebbe delegittimarla? E perché il sanzionatorio de-finanziamento dell’Unrwa da parte degli Stati Uniti e del Nord globale ha provocato una veemente protesta da parte di tutte le fazioni della resistenza?
I movimenti coloniali adottano una serie di tattiche per interrompere, distruggere e impadronirsi delle infrastrutture che aiutano a sostenere la vita. Come ho già detto, lo stiamo osservando molto chiaramente a Gaza. Sebbene l’Unrwa sia un’istituzione certamente problematica per molti aspetti concernenti un’effettiva liberazione della Palestina, fornisce servizi e risorse fondamentali ad ampie porzioni della società palestinese sia all’interno della Palestina stessa che ai rifugiati in Paesi vicini. È importante ricordare che i rifugiati palestinesi all’interno della Palestina e negli altri Paesi rientrano nel mandato dell’Unrwa e non in quello dell’Unhcr che gestisce tutti gli altri rifugiati nel mondo. L’Unrwa, dunque, offre il quadro giuridico attraverso cui i rifugiati palestinesi mantengono il loro status nella regione e che prevede la questione del diritto al ritorno dei palestinesi, una questione che già di per sé solleva interrogativi sulla legittimità del sionismo e di uno Stato ebraico. Mentre l’Unhcr lavora per reinsediare i rifugiati, l’Unrwa non ha il mandato per farlo e naturalmente il reinsediamento dei palestinesi in altri Paesi è qualcosa che Israele auspica fortemente proprio per impedire ulteriormente il loro diritto al ritorno. L’Unrwa fornisce servizi che vanno dall’assistenza sanitaria all’istruzione ai servizi di emergenza. E di ciò si avverte bene l’importanza di questi tempi a Gaza. Sin dal 16 ottobre scorso, le forze israeliane hanno iniziato a bombardare i magazzini alimentari dell’Unrwa per far sì che le già limitatissime risorse destinate ai palestinesi venissero distrutte. Solo questo spiega perché i sionisti aspirino alla distruzione dell’Unrwa: quantomeno per annientare un’infrastruttura che supporta i rifugiati nel loro permanere in Palestina.
In un articolo anche da te firmato, si legge che lo slogan “Uguali diritti per tutti”, dichiarato dalle Ong liberal, altro non è che una rielaborazione sionista del famoso “All lives matter”, tutte le vite contano. Puoi spiegare con più dettaglio quali siano le criticità di questo accostamento?
Lo slogan All lives matter è un tentativo di minare i movimenti contro l’ingiustizia razziale, allineando sistematicamente il dibattito all’esperienza riferente al vissuto dei bianchi. All lives matter è fuorviante perché non riconosce il razzismo sistemico e la brutalità della polizia che colpiscono in modo sproporzionato le comunità nere negli Stati Uniti. Invece di cimentarsi con la storia della polizia o le strutture razziste alla base del capitalismo, dello Stato e delle sue leggi, i bianchi convergono su quel “tutte le vite contano” che poi nessuno sente di contestare. L’espressione “uguali diritti per tutti” funziona retoricamente allo stesso modo, seppellendo il dato reale per cui i coloni non hanno “diritti” da vantare sulla terra, sulle risorse o sull’economia degli indigeni. È importante capire che in una società coloniale i diritti dei coloni sono costruiti mediante l’espropriazione degli indigeni con modalità prettamente materiali: furto di terra, acqua, strade e la distruzione di scuole, pozzi, alberi, terreni agricoli, risorse ambientali e così via. Non può iniziarsi un processo di decolonizzazione mantenendo le cose così come stanno e riconoscendo a tutti “uguali diritti”. I popoli indigeni devono vedersi restituire le loro risorse materiali e tutte le logiche e i sistemi alla base dell’espropriazione devono essere completamente smantellati. Oltretutto, “uguali diritti per tutti” sottende qualcosa di molto sinistro e cioè che il colonialismo d’insediamento in Palestina è un processo quotidianamente in corso. Milioni di dollari all’anno vengono versati per introdurre nuovi coloni in Palestina al fine di mantenere e incrementare livelli demografici adeguati allo Stato coloniale e al suo progetto violento. C’è una domanda che non può essere ignorata: crediamo forse che i coloni arrivati in Palestina quest’anno meritino gli stessi diritti sulla nostra terra rubata rispetto a quelli di coloro relegati nei campi profughi da più di settantacinque anni?
Spesso si resta schiacciati dalla pressione propagandistica e dal silenzio conseguente all’adozione della definizione di antisemitismo dell’IHRA, International Holocaust Remembrance Alliance. Nei circoli occidentali più “progressisti”, quando ci si oppone a questa definizione, si sottolinea che essa preclude la possibilità di criticare lo Stato di Israele e le sue politiche. Puoi spiegare perché l’antisionismo non può e non deve ridursi soltanto a un mero diritto di critica?
Si è detto molto sul perché non adottare la definizione IHRA e non ho molto da aggiungere. La questione si riduce al fatto che individui e istituzioni che vi partecipano vogliano sostenere e far progredire le strutture del colonialismo e dell’imperialismo. La discussione da farsi sull’adozione dell’IHRA è se le persone abbiano intenzione di impegnarsi realmente nel contrastare simili proposte oppressive oppure no. In tutto il mondo, dalla Palestina allo Yemen, passando per l’Africa e l’Asia, le popolazioni indigene stanno letteralmente pagando con la loro stessa vita per impedire le mire dell’imperialismo. I soggetti che operano all’interno delle istituzioni, di solito aderenti a una ideologia liberal, possono decidere di organizzarsi contro l’adozione di quella definizione minacciando conseguenze materiali come scioperi, abbandono del posto di lavoro o qualsiasi altra tattica adeguata al loro contesto. Aggiungo che ho sempre trovato grottesco che qualcuno avanzasse la pretesa della definizione di antisemitismo dell’IHRA all’ombra di una sbandierata “memoria dell’Olocausto”. L’Olocausto ha riguardato la distruzione sistematica di un popolo attraverso l’uso di leggi e strutture violente che lo hanno disumanizzato, derubandolo dei beni, del lavoro, fino a sterminarlo. Si è trattato di un genocidio che ha utilizzato le tattiche del colonialismo posto in essere in Africa come, ad esempio, il genocidio tedesco in Namibia contro i popoli Herero e Nama. Chiunque comprenda la storia dell’Olocausto dovrebbe opporsi a simili processi ovunque e non strumentalizzare un genocidio ai danni di un determinato un popolo per avallare e preservare la commissione di un altro genocidio e un progetto coloniale.
L’antisionismo è dunque molto più di uno slogan. Che ruolo incarna nella lotta di liberazione e decolonizzazione da parte dei palestinesi? Dal punto di vista politico, economico e finanziario, quali sono invece le azioni che riterreste utili da intraprendere in Occidente a sostegno della resistenza e della lotta decoloniale in Palestina?
Le tattiche politiche, economiche e sociali variano a seconda dei contesti, quindi non esiste una metodologia unica valida per tutti. Tuttavia, individui e organizzazioni che dichiarano di essere antisionisti devono puntare alla liberazione e alla decolonizzazione della Palestina. Dal punto di vista etico, qualsiasi organizzazione che raccolga fondi sotto la bandiera della solidarietà palestinese dovrebbe avere come unica priorità i bisogni dei palestinesi in Palestina e di quelli in diaspora. Invece, osserviamo l’operato di organizzazioni che mettono in primo piano la politica locale e le priorità istituzionali. Ad esempio, negli Stati Uniti, le maggiori organizzazioni di solidarietà – Jewish Voice for Peace e US Campaign for Palestinian Rights – si sono rifiutate di mobilitare la loro base contro il Partito democratico, intimorite dalla potenziale perdita di punti di riferimento politico e delle sovvenzioni elargite dai donatori liberal. È la società civile, guidata dai leader della comunità araba in Michigan, ad esempio, che ha cavalcato proprio questo tema. I palestinesi, sia in Palestina che nella diaspora, hanno invitato gli attivisti della solidarietà a non votare o fare donazioni al Partito democratico. Le organizzazioni che citavo hanno rifiutato l’invito anteponendo i propri interessi societari e istituzionali a quelli della liberazione della Palestina: tutto ciò avviene proprio mentre i palestinesi sono quotidianamente ammazzati in massa a Gaza. Al tempo stesso, queste organizzazioni si vantano di essere antisioniste, usando tale attributo come strumento di marketing per attrarre individui che investano nel loro presunto movimentismo. Non so che obiettivi abbia un simile movimento o quali siano i suoi fini immediati. Di certo, è impegnato nella captazione di risorse, sottraendo un vitale sostegno politico e finanziario che potrebbe essere investito in tattiche di liberazione o di supporto materiale a favore di coloro che necessitano di assistenza immediata sul campo.
Abbiamo assistito alle recenti udienze presso la Corte internazionale di giustizia che si è occupata dell’accusa di genocidio portata avanti dal Sudafrica nei riguardi di Israele. Le misure interlocutorie adottate contengono alcuni elementi importanti, ma si è avuta subito l’impressione che si trattasse di una questione rilevante dal punto di vista giuridico ma priva di risvolti pratici. Tant’è che Israele, storicamente impunito, ha continuato il suo comportamento genocida. Cosa rappresentano l’esistenza e la funzione di una struttura di giustizia internazionale, con i suoi rituali e le sue leggi, sullo sfondo di una situazione di aggressione coloniale lunga un secolo?
Gli strumenti internazionali hanno sempre privilegiato lo Stato-nazione rispetto alle comunità indigene e, più in particolare, rispetto ai movimenti di liberazione. In tal senso, funzionano per come sono stati progettati e cioè per mantenere lo status quo che affida un potere smisurato nelle mani degli Stati imperiali, compresi gli Stati Uniti. Anche se ci sono elementi rivelatisi d’aiuto in alcuni casi, queste istituzioni funzionano in gran parte per legittimare le azioni (o l’inazione) degli Stati. Ciò che noi del Good Shepherd Collective riteniamo più importante capire è che, qualunque sia l’utilità del diritto internazionale, esso non dovrebbe mai essere visto come un sostituto dell’organizzazione di base e della trasformazione sociale. È questo il punto cruciale. La mia collega Leila Shomali sottolinea spesso che sono state le Nazioni Unite, nel 1947, a legittimare il movimento sionista e la creazione di uno Stato di coloni in Palestina, presentando il Piano di spartizione. Possiamo quindi senz’altro testimoniare i molti modi con cui la comunità internazionale non solo ha fallito nel sostenere o proteggere i palestinesi, ma ha addirittura svolto un ruolo attivo nella nostra espropriazione.
Gli accordi di Oslo sono stati un perfido veleno. Nell’approccio decoloniale, non c’è differenza tra le colonie nei territori occupati dopo l’invasione del 1967 e gli insediamenti nei territori che sono considerati internazionalmente appartenenti a Israele. Le prospettive di un modello a due Stati appaiono quindi un esercizio antistorico, contrario allo spirito decoloniale. Quale sarà il futuro di questa terra meravigliosa e dolorosa? Chi la abiterà e come?
Naturalmente non posso prevedere il futuro, ma spero che sia un futuro decoloniale in cui i palestinesi siano in grado di tornare nelle loro terre, smantellare le strutture del sionismo che sostengono la violenza perpetua e lo sradicamento e costruire nuove strutture che permettano a questa comunità ricostituita di prosperare. È molto difficile, ma forse più importante che mai, immaginare questo futuro proprio in un momento come questo. Per troppo tempo in tanti al di fuori della Palestina hanno creduto che il sionismo e il colonialismo sarebbero durati per sempre, scommettendo sulla loro longevità. Ciò fa parte di una svolta verso il “pragmatismo” e la costruzione di uno Stato che ha allontanato i palestinesi da liberazione e decolonizzazione trasformando la discussione in qualcosa di diverso, riguardante due Stati, il diritto internazionale umanitario, l’occupazione militare, i diritti umani e così via. Noi del GSC crediamo che questo sia un grave errore e che quanto prima possiamo iniziare a relazionarci con un futuro decoloniale e liberatorio, tanto meglio sarà.
Fonte: https://comune-info.net/